C’è chi descrive Untrue di Burial come un capolavoro irraggiungibile della musica elettronica. Io sinceramente la prendo meno di pancia e rifletto su uno dei mosaici più complessi della musica elettronica moderna.
Era il periodo universitario. Bel periodo. Mi dividevo fra l’università e una casa affittata da alcuni miei compagni di corso, a pochi chilometri in linea d’aria rispetto a quella dei miei genitori. Sì, sono stato molto fortunato ad avere tutto a poche decine di minuti a piedi. Ma a tratti era anche limitante. Spesso sentivi storie e racconti di serate rampanti, scorribande in treno da Brescia a Milano senza biglietto e vagabondaggi milanesi e/o torinesi senza fine. Io, invece, ero rinchiuso in una “sana bolla” fra le mura di una città tanto metropolitana quanto provinciale.
Che lo vogliano o meno ora i miei coetanei, ma a cavallo fra il 2007 e il 2010 la mia città natale (Brescia nda.) era tempestata da cover band di dubbio gusto che spalmavano come marmellata su una fetta di pane ormai stantio suoni cacofonici anni 80 e 90. Negli stessi anni però conclavi molto forti ed “alternative” creavano giri importanti nel mondo Punk e nel nascente mondo Indie (Quello che conosciamo ora nda.).
Si sa, in realtà le mode hanno bisogno di una loro cassa di risonanza, piccola o grande che sia. La mia era quella casa. Fatta da ragazzi di varie origini musicali ed artistiche. Una vera e proprio palestra di pensiero e di idee.
E fu proprio da quello stereo (anche fin troppo potente per la stanza che era. Per la felicità dei vicini nda.) che scoprii per la prima volta Untrue.
Un disco arrivato dopo alle mie orecchie come per molti. Infatti inizialmente Untrue non fu calcolato tantissimo dalla stampa web e cartacea. E che lo vogliate o meno o che lo crediate o meno leggevo e leggo tantissimo. Poi magicamente il botto. Cominciò a girare per qualche web radio alternativa, specialmente all’estero. Fino a diventare un accessorio culturale di decoro per alcuni, un tempio nel quale venerare la figura di William Bevan aka Burial per altri.
Un ragazzo classe 84 nato a South London. Un ragazzo che non aveva bisogno dei grandi studios e delle grandi strumentazioni. Nella sua stanza. Nella sua camera. Con il suo Sound Fourge (Per i non addetti al lavoro, un software DAW per composizione audio e recording. Fra i più “cheap” nda.). Stop. Nessuna orchestra, nessun diploma in conservatorio e grandi nozioni musicali classiche. Il buio della sua stanza e la sua dimensione rappresentata dalla monofonia estenuante, resa ancora più marcata da quei pochi ma incisivi passaggi stereofonici di sample arrugginiti che sanno quasi di muffa. Di quella muffa non malsana ma di quella che ti fa “sentire al sicuro. Perchè la conosco ed è mia.”
Ciò che molta critica non riesce a comprendere e/o a descrivere è proprio questo passaggio: la natura, l’origine della composizione. Da dove arriva? Com’è nata davvero questa incredibile performance messa su disco? Ok, tutti sappiamo della HyperDub (Etichetta che ha stampato il disco e che stampa tutt’ora i dischi dell’artista inglese nda.). Tutti sappiamo della vicinanza successiva con i Massive Attack e delle sue incredibili collaborazioni.
Ma io voglio ricordarmi da dove arriva. E come è nato Untrue.
Mi voglio continuare ad immedesimare in lui e allo stesso a me stesso durante quei rampanti e fumosi anni universitari. Una stanza stretta, sporca, ordinata nel suo disordine e ricca di fumo. Quel fumo ormai stantio che persevera fra gli infissi vecchi di una casa fine anni 60. La connessione esperienziale che passa attraverso questo vero e proprio mosaico elettronico fa di Untrue non un capolavoro ma una storia vera. Alcuni di voi, staranno pensando che siamo degli invasati a pensarla così. Che forse ne abbiamo presa troppa di questa merda, da rimanerci sotto. E qui che ti sbagli. Perchè come ogni perfetto drogato che si rispetti, quando esce dal tunnel se veramente guarito guarda quei momenti con paurosa timidezza. Timidezza di un ascolto incontrollato e senza quell’ansia di “tutto subito”.
Untrue si sviluppa come la vita di quella stanza. Di quelle stanze. Lentamente vengono riempite da oggetti a volte inutili, a volte dimenticati. A volte non sai nemmeno l’origine. “Ehi ma com’è arrivata sta roba?”.
Un ricordo di qualche festa in casa. Un vestito di qualcuno che è stato nel tuo letto. Untrue si sviluppa così, lentamente. Per livelli. Come se osservassi tutto questo, seduto su una sedia da un’angolazione. Poi dall’altra. Poi da un’altra ancora. E tutto cambia colore. Perchè più volte ascolti Untrue più ti viene da dire “Ma quanto eri solo quando hai scritto tutto questo”.
La parafrasi della solitudine e del notturno nel mondo della musica non è cosa nuova, certamente. Ma rappresentarla in maniera così umana ed esperienziale è sicuramente il valore aggiunto di questo disco. Non solo quindi, il suo hype nei confronti di una generazione che guarda solo a Berlino e ad Instagram. Non solo a chi crede che un sequencer ben piazzato sul C possa creare un pezzo fenomenale. Untrue è qualcosa di più. È un piccolo spaccato di vita generazionale messo in musica, con pochi mezzi ma con quella voglia di descrivere tanto quella stanza che, ogni tanto, manca. Tanto.